2005
Fuori Tema/Italian Feeling, XIV Quadriennale d'Arte, Roma
A cura di G. Agnese, L. Caramel, V. Deho, G. Di Pietrantonio, M. Tonelli, G. Verzotti

“Lo scivolamento linguistico dell'arte contemporanea verso un supercodice internazionale ha ori­gine storicamente dal confronto tra le culture delle avanguardie e la concentrazione d'artisti nelle grandi capitali agli inizi del XX secolo. Quello che è accaduto è stato che le caratteristiche cultu­ralmente definite, i linguaggi particolari che scendevano dalle varie tradizioni nazionali, hanno fini­to per omologarsi in una superlingua che era esattamente una reazione ai recinti che chiudeva­no, nella sintesi tra l'ethos e il ghenos, il concetto d'arte. Non a caso l'antitradizione del futurismo trova un'eco distante quanto coerente in Russia, dove i problemi da risolvere erano gli stes­si, e dove sono gli stessi i giovani che lottano contro il potere dell'Accademia e della tradizione, per liberare dalle occlusioni il sistema sanguigno dell'arte. Sarà stato lo Zeitgeist o il Dio Caso, ma l'Europa delle capitali e della modernità abbandona la consuetudine della lingua materna e comincia a trovare tanti padri, prolifici quanto infedeli.
L'arte nazionale va a farsi benedire, magari rifugiandosi ancora (una volta) nelle Accademie e nelle Università, estremo rifugio del 'normale' e dello scontato. Però nello stesso tempo, soprat­tutto in Italia, si verifica un fenomeno curioso e tipicamente nostrano: la prima delle avanguardie storiche, il nostro futurismo bistrattato per decenni dall'effetto piazzale Loreto, trova quasi subito un antagonista nella metafisica di de Chirico, che nega l'avanguardia rifondando la pittura e inventando l'arte più italiana che esista e sempre esisterà. Di là dalle dichiarazioni dei protago­nisti e dei testi preziosissimi scritti dallo stesso de Chirico o da Carrà, l'apparenza nuda è che in una decina d'anni nella penisola si consuma un kammerspiel familiare, che si pone dialettica­mente in un'antitesi fra tradizione e rivoluzione, producendo però grande arte da entrambe le parti. L'asciutto intellettualismo metafisico miscelato con la storia e il mito, raffredda il clima delle avanguardie, generando probabilmente l'autentica novità del secolo, per la sospensione tra passato e futuro, tra mondo onirico e realtà. Inoltre fornisce le tracce di un artista-intellettuale, che dipinge e sa scrivere, che fa nascere dibattiti e produce cultura. Un artista 'contemporaneo', ma nello stesso tempo impegnato a non disperdere le tracce della propria tradizione e del pro­prio particolarismo, negando che l''universale' sia per forza equivalente al 'globale'.

Quindi alla ricerca dell'arte perduta o perlomeno di una traccia che colleghi l'oggi al passato, par­lare d'arte nazionale equivale a caricarsi forse di problemi superati, ad accogliere la critica di uscire dalla storia e, perfino, dalla geografia. Però i dubbi rimangono, lo strabismo in questo caso è un pregio, e l'idea che l'arte possa essere uguale in tutto il mondo in/differente e generalista, è un brutto sogno da cui svegliarsi.
L'international style può produrre grandi effetti mediatici e generare l'illusione della periferia di essere al centro del mondo, ma nello stesso tempo tende a favorire la clonazione, la riproduzio­ne indifferenziata, praticamente il prodotto. Non è detto che un biscotto che si vende in tutti i negozi di alimentari del pianeta sia per forza il migliore. Se l'esperanto artistico ha un senso culturale e uno di diffusione, è anche vero che trovare gli stessi 'prodotti' a Shanghai come a Brisighella crea un'uniformità inquietante come se si avesse a che fare con una pandemia inar­restabile da fast food.
Tuttavia non si può essere nostalgici di un'arte nazionale, anche perché l'Ottocento da noi ha seguito la provincializzazione della nostra cultura, a causa della marginalizzazione dell'economia e della politica. La grande arte viene dalle grandi nazioni (i geni invece vengono fuori dappertut­to), ma nell'era della globalizzazione (tanto per essere originali) è anche vero che non si unifor­ma solo la produzione artistica, ma anche il mercato…”

da Arte italiana
di Valerio Dehò